lunedì 21 gennaio 2013

Edith Wharton e "L'età dell'innocenza"


"Archer era tornato a tutte le sue vecchie idee sul matrimonio, così come le aveva ereditate. Era meno complicato uniformarsi alla tradizione e trattare May esattamente come i suoi amici trattavano le loro mogli, piuttosto che cercare di mettere in pratica teorie con le quali si era trastullato durante il suo periodo di libertà da scapo. Era inutile cercare di emancipare una moglie che non supponeva neanche lontanamente  di non essere libera".

Provate un po’ voi a primeggiare, a farvi notare, a conquistare una squisita fetta dell’agognata torta della gloria terrena, insomma, provate un po’ voi a diventare smisuratamente celebri se avete avuto la malaugurata sorte di nascere tanto vicino, nel tempo e nello spazio, a un grande, a uno di quegli uomini grandi davvero, artisti perfetti e incontestabili, che le varie epoche partoriscono, di tanto in tanto, con sapiente tirchieria. Impresa dannatamente difficile, sia chiaro. Potete essere bravi, bravissimi, persino geniali, ma, a conti fatti, il pur sempre scadente genio del secondo posto: quanti Thackeray ci vogliono per fare un Dickens? Quanti piccoli Salieri in fila per sei formeranno un gigantesco Mozart?
Tutta qui la maledizione della Warthon, niente di più che una sfiga anagrafica: New York 1862, neanche vent’anni pieni dopo la nascita dell’altro, di quello grande che tutti ricordano che, manco a dirlo, è pure uomo, quindi, nell’ottica dei contemporanei, decisamente più meritevole di essere ricordato. Tant’è che Edith non è mica stupida e pure lei riconosce l’ingombrante talento del contemporaneo e ne diventa, oltre che sincera amica, anche umile ammiratrice: “ero ammutolita davanti alla sua grandezza”, dice di Henry James, durante il primo incontro a Parigi.
Ecco, a onor del vero, non sto millantando un’esistenza senza riconoscimenti per la cara Warthon: letta, apprezzata e ripetutamente rivalutata a seconda dei momenti di maggior rimorso femminista, la scrittrice è famosa, i suoi libri ristampati e riproposti secondo formule il più possibile accattivanti: Scorsese nel 1994 ha diretto un grazioso adattamento cinematografico de “L’età dell’innocenza” (un Oscar per i costumi e quattro nomination) e il “Corriere della Sera” nel 2012 ha pubblicato due racconti con testo originale a fronte, brevi, vivaci e piacevoli nonché agevolmente comprensibili in inglese. Ma, in fondo, bisogna contestualizzare i diversi tipi di fama e se oggi si legge poco, malino, di fretta, saltando le righe e scansando, scandalizzati, qualsiasi libro contenga, Vade Retro!, otto mostruose parole che non conosciamo, allora la nostra Edith non può che soccombere, bella stella, oppressa e ammaccata sotto il peso della non-letteratura da autogrill.
Però qui sta il guaio, perché la Worthon scrive davvero bene. Limpida, scorrevole, disincantata ma profondamente emozionante, esattamente come James, usa quel dannato aggettivo giusto per incrinare l’apparente solennità del proprio stile, sorridendo sotto i (speriamo) metaforici baffi, e invitandoci a non prenderla, in fin dei conti, così tremendamente sul serio. E’ intrinsecamente americana, salta subito all’occhio, ma un’americana che ama l’Europa, che Dickens e, ma sì, concediamoglielo, Thackeray li ha letti davvero, che fugge, amareggiata, la terra natia ma proprio non riesce a camuffare quel travolgente sangue newyorkese che accende la sua pagina e rende le sue trame impossibili da abbandonare. 

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